Moda e modelli (strategici): Italia e Spagna a confronto
Portato spesso come esempio del diverso grado di competitività paese tra Italia e Spagna, il caso della concorrenza nei prodotti del sistema moda rivela l’importanza delle scelte strategiche adottate dalle imprese.
32 dollari per un paio di pantaloni di cotone da donna italiano, 14 per un paio spagnolo. E ancora, 54 dollari per delle scarpe sportive italiane, 13 per quelle spagnole.
Basterebbero forse questi pochi numeri, replicati per le centinaia di codici merceologici relativi ai prodotti del sistema moda e le decine di paesi esteri serviti, a spiegare il differente approccio delle grandi imprese del fashion italiano e spagnolo ai mercati mondiali. Ma il prezzo non è che l’ultimo tassello di strategie aziendali che coinvolgono l’approvvigionamento, le funzioni di produzione, l’organizzazione aziendale, i rapporti con la distribuzione e la scelta dei mercati target.
Approvvigionamento che, nel caso spagnolo, è costituito in prevalenza da paesi a basso costo del lavoro (nordafricani e asiatici), mentre per l’Italia è rappresentato da lunghe catene di subfornitura, ancora per lo più nazionali. Differenze che determinano, a livello paese, un deficit commerciale strutturale prossimo ai 10 miliardi di Euro per la Spagna e un attivo di quasi 25 miliardi (il secondo dopo quello nella meccanica) per l’Italia.
Funzioni di produzione che, anche per effetto del diverso tipo di approvvigionamento, vedono i consumi di materie prime e semilavorati incidere per quasi il 70% del valore della produzione nel paese iberico e per meno del 50% in Italia, con un valore aggiunto - proxy dell’articolazione e lunghezza dei processi produttivi svolti internamente dalle aziende, oltreché della capacità di creare valore – al 20% per la moda tricolore e al 12% per le concorrenti spagnole.
La minor rilevanza delle funzioni produttive in senso stretto si traduce anche in una minor incidenza del costo del lavoro in Spagna (9%, contro il 12% italiano) e, nonostante le politiche di moderazione salariale adottate oltre Pirenei, in una scarsa differenza in termini di costo medio di un lavoratore: 44 mila Euro in Italia e 42 mila in Spagna, in virtù proprio di una maggior presenza di figure professionali a più elevata qualifica (oltretutto con una dinamica di crescita molto sostenuta nel paese iberico: +40% dal 2007 al 2013, contro il +16% italiano).
La “leggerezza” industriale del modello spagnolo, più orientato a modelli strategici da azienda di distribuzione, non si traduce però in un’eguale fragilità finanziaria e operativa delle imprese: la capitalizzazione è infatti (patrimonio netto in % dell’attivo) al 50%, ben superiore al 37% italiano, e l’indebitamento estremamente contenuto (28% del patrimonio), quasi 2.5 volte inferiore a quello italiano (73%).
In termini di mercati target, invece, i prodotti italiani evidenziano una presenza che, seppur ancora centrata sull’Europa occidentale (50% delle vendite), è capillare in tutte le aree mondiali (di assoluto rilevo il 18% in Asia, contro il 7% spagnolo), mentre i concorrenti iberici sono soprattutto focalizzati sui paesi geograficamente più vicini (continente europeo e aree del Mediterraneo e Medio Oriente garantiscono l’85% delle vendite della moda spagnola). Tuttavia, i risultati si invertono andando a considerare i singoli paesi: la Spagna, grazie a reti distributive capillari, è presente in praticamente tutti i paesi delle aree geografiche di specializzazione, al contrario dell’Italia in cui le vendite mondiali sono concentrate in pochi grandi mercati (e probabilmente al loro interno in poche grandi città): il 70% delle vendite di abbigliamento e l’80% di calzature italiani sono infatti concentrati in 15 paesi, valori rispettivamente del 55% e 70% per la Spagna.
Le differenze evidenziate nel percorso che dall’ideazione dei prodotti porta, attraverso gli stadi di lavorazione intermedi e il confezionamento, fino al consumatore finale incidono profondamente sulla struttura delle relazioni commerciali delle imprese nei due paesi. Se per l’Italia anche in questo settore non ci si discosta dalle “cattive” abitudini (giorni fornitori e clienti attorno al valore di 80, ben lontani dai teoricamente vincolanti 60 giorni dell’Unione Europea), per le grandi imprese spagnole si evidenzia un forte sbilanciamento nella composizione del capitale circolante, con giorni fornitori attorno a 40 (i rapporti commerciali con l’estero, da cui proviene gran parte dell’approvvigionamento, hanno sempre mediamente tempi di pagamento più brevi rispetto a quelli interni), ma tempi di incasso dai clienti prossimi a 100, a segnalare le agevolazioni concesse alle imprese della distribuzione, spesso facenti capo allo stesso gruppo dell’impresa industriale.
Per completare l’analisi manca però il tassello fondamentale: che risultati, finanziari e commerciali, hanno prodotto questi approcci strategici così distanti? La risposta non è univoca, perché, da un lato, l’andamento delle quote di commercio internazionale sembra premiare la Spagna, arrivata a detenere il 2.2% del valore delle importazioni mondiali del settore nel 2014 (con un incremento di 3 decimi di punto dal 2007), contro una quota sì più elevata per l’Italia (6.3%), ma in calo di oltre 2 punti. All’opposto, invece, la redditività industriale premia le imprese tricolori (Roi al 5.7, contro il 4.3 iberico), che tra il 2007 e il 2013 hanno anche presentato una minor dispersione dei risultati individuali, priva quindi di casi di assoluta eccellenza e di elevata criticità.
Le analisi presentate, pur non essendo esaustive degli elementi caratterizzanti il settore, mostrano quanto possa essere fuorviante ricondurre differenze di competitività industriale a generici fattori paese. Oltre agli aspetti di composizione (geografica, micro-merceologica e qualitativa) dei prodotti, il ruolo più rilevante nel determinare i successi o meno delle imprese continua a risiedere nelle scelte strategiche da esse operate.
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